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mercoledì 8 giugno 2011

Per cosa voteremo il 12 e 13 giugno.


Fanno benissimo, credo, i giornalisti e i blogger che in questi giorni spiegano i testi dei quesiti referendari. E’ giusto infatti che per quanto possibile si sappia, nello specifico di legge, che cosa potrebbe cambiare per quanto riguarda le norme sulle centrali nucleari, sulla distribuzione dell’acqua e sul legittimo impedimento.

Però, però.

Però sarebbe un po’ riduttivo rinchiudere gli effetti dei referendum nelle loro technicalities. Perché non è così, non è mai stato così. La consultazione sul divorzio del 1974 non ha solo permesso agli italiani di risposarsi dopo un matrimonio fallito: ha messo alle spalle l’Italia bigotta del Dopoguerra, ha portato al nuovo diritto di famiglia del 1975, alla legge 194 sull’aborto del 1978, allo stupro non più come reato contro la morale bensì contro la persona nel 1996. Per dire. E senza il referendum sulla preferenza unica del 1991 non ci sarebbe stata Mani Pulite un anno dopo.

Insomma, credo che sia giusto – nel votare – fare un po’ un “balance” tra il loro effetto tecnico e il loro effetto politico.

Il voto sull’acqua, ad esempio, non riguarda soltanto il destino degli Ambiti Territoriali Ottimali o lo scioglimento delle società miste che gestiscono le risorse idriche. Un eventuale doppio Sì sull’acqua vuol dire anche che gli italiani non credono all’iperliberismo come pensiero unico dominante, non credono che tutto nella vita debba essere fonte di profitto, non credono che necessariamente i privati sappiano organizzare meglio del pubblico i servizi essenziali per il cittadino. E’ così, piaccia o no: è un segnale politico a favore o contro il mantra thatcheriano che ci accompagna da venti e passa anni.

Il voto sul nucleare, poi, da un punto di vista tecnico «non cancellerà per sempre la possibilità di costruire impianti di generazione elettrica basati sulla fissione nucleare», come sostiene Marco Cattaneo, ma non credo che vi siano dubbi che sarebbe un voto contro le centrali atomiche – e (se vincessero i Sì) un messaggio sulla questione perfino più forte di quello mandato dagli elettori nel 1987. Nasconderselo sarebbe un filo ipocrita, credo. Secondo me sarebbe anche un messaggio forte su altro, ad esempio sulle rinnovabili e sulla green economy: ambiti nei quali il governo italiano brilla per assenza se non boicottaggio, e con cui invece un’eventuale vittoria dei Sì, almeno sul medio lungo termine, costringerebbe a fare i conti.

Quello sul Legittimo Impedimento, infine, cosa sarebbe? Anche qui, inutile nascondersi dietro a un dito. Sarebbe un messaggio forte a Berlusconi – e alla classe politica in generale – per dire che la legge è uguale per tutti, che la magistratura si rispetta, che ci si difende nei processi e non dai processi. Sarebbe anche un ‘non provateci neppure a rimettere l’immunità parlamentare’ come prima, ad esempio; e già che ci siete dimenticatevi pure il Lodo Alfano costituzionale. Mica poco.

Questo, anche questo, è quello che decideremo il 12 e il 13 giugno.

Poi va benissimo decriptare i quesiti riga per riga e – lo ripeto a scanso di equivoci – è importante anche conoscerne le technicalities. Ma se ci si ferma qui, intendo dire solo qui, se ne rischia di fare una lettura un po’ ragionieristica e piccina. Una lettura che non tiene conto dello spirito del tempo: che è fondamentale per il nostro futuro e può andare, appunto, da una parte o dall’altra.

martedì 3 maggio 2011

Chi vuole far soldi con l'acqua

acquadollari

di Maurizio Maggi e Stefano Vergine - L'Espresso

Una torta da 64 miliardi. Da spartire tra il gruppo Caltagirone, la famiglia Benetton, gli eredi Gavio, i Pesenti e l'immancabile Ligresti. Senza gare d'appalto. Ecco perché il referendum del 12 giugno fa tanta paura.


Bicchiere ricco, mi ci ficco. Solo per gli acquedotti, dicono gli esperti, bisognerà investire qualcosa come 16 miliardi di euro nei prossimi 30 anni. E altri 19 miliardi per fognature e depuratori. Tra manutenzione del sistema idrico e opere nuove di zecca, il conto della spesa prevista supera i 64 miliardi di euro. Svanito il sogno di lavorare sul nucleare, molte imprese, italiane ed estere, incrociano le dita e sperano che non svanisca il grande affare dell'acqua. Che è prima di tutto un bel business per i costruttori, tra cemento, tubi, scavi e via dicendo. Uno dei pochi settori in cui possono arrivare denari dalle casse dello Stato. Giuseppe Roma del Censis stima che almeno l'11 per cento di quegli agognati 64 miliardi arriveranno da fondi pubblici. Ma Franco Bassanini, presidente della Cassa depositi e prestiti, suona l'allarme, sostenendo che la vittoria del "sì" al referendum anti-privatizzazione, inchiodando le società che gestiscono i servizi nell'area pubblica, collocherebbe i loro prestiti nell'alveo del debito dello Stato: col rischio che gli investimenti vengano bloccati per non sforare il patto di stabilità.

Fino a qualche settimana fa un massiccio afflusso di investimenti privati pareva ineluttabile, grazie alla prospettiva di vendere l'acqua a prezzi remunerativi, cioè crescenti. Ora però, sia i gestori che gli operatori guardano preoccupati al referendum del 12 e 13 giugno. "Se vince il sì all'abrogazione dei due articoli sull'affidamento ai privati e sulla remunerazione del capitale, ci vorranno anni per riattivare il flusso di denari per modernizzare la rete", dice Roberto Bazzano, presidente dell'Iren, società nata dalla fusione di ex aziende municipalizzate (tra cui quelle di Genova, Torino e Reggio Emilia), e numero uno di Federutility, la federazione delle utilities che aderisce a Confindustria.

Secondo Bazzano, anche i finanziamenti già decisi dagli Ato (gli ambiti territoriali ottimali) arrivano a rilento, nella misura del 50 per cento dei 2 miliardi di euro di cui ci sarebbe bisogno ogni anno per tappare le falle di una rete-colabrodo che perde un terzo dell'acqua prima che arrivi al cliente: "Chi ha voglia di investire soldi freschi, oggi, sapendo che tra qualche mese il capitale potrebbe non essere più remunerato per legge?", si chiede retoricamente il capo di Federutility. Un'analisi che, ovviamente, non è affatto condivisa dai referendari, che la pensano esattamente all'opposto: l'acqua è meglio pubblica.

La battaglia si fa effervescente dal punto di vista politico. Al governo piacerebbe far saltare anche questo referendum, dopo quello sul nucleare, per far mancare il quorum al quesito sul legittimo impedimento, temuto da Silvio Berlusconi. Si aggiunge lo scontro ideologico che verte sul quesito: "E' giusto fare i soldi con l'acqua?". Il fronte del no, mosso da sinistra, conquista adepti anche nelle fila degli amministratori locali espressi dal centro destra.

Dietro l'aspetto politico e ideologico si nasconde in realtà una questione legata agli affari possibili. I players, italiani ma anche stranieri, sono più che agguerriti. A partire dal gruppo di Francesco Gaetano Caltagirone, azionista privato sempre più "pesante" dell'Acea, e dai francesi di Gdf-Suez (che sono soci della stessa Acea ma giocano anche in proprio) o degli altri francesi di Veolia. In teoria, la torta potenziale è talmente grossa che non ci sarà bisogno di sventolare l'italianità contro i colonizzatori d'Oltralpe. I due colossi Gdf-Suez e Veolia sono già ben radicati sull'italico suolo, e anche se la stessa Acea, la Iren con l'appoggio strategico del Fondo per le Infrastrutture (F21) guidato da Vito Gamberale o la bolognese Hera aspirassero davvero a divenire dei "campioni nazionali", ci sarebbe spazio per tutti.

"Entrare nel business dell'acqua è proficuo soprattutto per chi realizza infrastrutture. Prendiamo come esempio l'Acea: se la società decidesse di realizzare un grosso lavoro di ristrutturazione della rete idrica, probabilmente lo farà fare a Vianini Lavori, impresa controllata dallo stesso Caltagirone", sottolinea Marco Bersani, uno dei fondatori del Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua. Ma non ci sono le gare d'appalto? "Nessun problema. Anche se dal primo gennaio 2010, l'Unione europea ha abbassato la soglia minima per le gare pubbliche da 5,1 milioni di euro a 4,8, chi vuole affidare i lavori senza essere costretto a indire una gara può sempre spezzettare le opere in più parti", afferma ancora Bersani. Tra le aziende interessate ai molti business legati all'acqua sul fronte delle opere spiccano nomi celebri di società quotate in Borsa: come Impregilo (azionisti Benetton, Gavio e Ligresti) e Trevi Group, che nel realizzare pozzi per l'estrazione d'acqua può affiancare alle macchine perforatrici le pompe e le vasche per il trattamento del fango. Amministratore delegato del Trevi Group è Cesare Trevisani, vicepresidente di Confindustria. Senza dimenticare grandi cementieri come i Pesenti, patron di Italcementi, certo attenti agli sviluppi dei futuri progetti su acquedotti, depuratori e fognature.

I bocconi potenzialmente più attraenti sono quelli che nella mappa sono evidenziati in blu. "Si tratta di città e zone dove la gestione del servizio idrico è "in house", cioè affidata a società interamente controllate dall'ente pubblico, come Milano, Torino, Napoli, parte del Piemonte, le province di Bergamo e Verona", spiega Luca Martinelli, giornalista di Altreconomia e autore del pamphlet anti-privatizzazione "L'acqua (non) è una merce", appena uscito in libreria. Martinelli critica la Legge Ronchi, quella che obbliga le società che gestiscono il servizio a scendere sotto il 40 per cento di partecipazione pubblica già entro la fine del 2011 e attacca il meccanismo della gara obbligatoria per ottenere la concessione: "Negli ultimi 15 anni, alla maggior parte dei bandi ha partecipato un solo soggetto: dov'era la concorrenza tanto strombazzata?". Martinelli sottolinea anche come due dei big nazionali della gestione come Iren ed Hera siano cresciuti non vincendo appalti "ma rilevando altre società pubbliche che avevano in pancia affidamenti ottenuti senza gara. Alla faccia della competizione". Nonostante il 47 per cento di rincari delle tariffe tra il 1998 e il 2008, il costo dell'acqua resta mediamente inferiore, in Italia, rispetto a molti altri paesi. Secondo il Blue Book di Utilitatis, nel 2009 una famiglia di tre persone ha sborsato, a Roma, 204 euro per un consumo di 200 metri cubi, contro i 224 di Singapore, i 275 di Stoccolma, i 317 di Lisbona. Maurizio Del Re, amministratore delegato di Sorical (53,5 per cento Regione Calabria, 46,5 per cento Veolia), fa due conti: "Attualmente una famiglia italiana di tre persone spende per l'acqua 20 euro al mese, circa 7 euro a persona. Se venisse realizzato veramente il piano di investimenti da 60 miliardi, gli incrementi di tariffa sarebbero di 5 euro a persona all'anno per trent'anni". Il che vorrebbe dire passare da 84 euro all'anno a persona a 234 alla fine del trentennio.

A dispetto dei rincari già subiti, tuttavia, almeno finora la salute della rete idrica nazionale è restata più che cagionevole, anche se non mancano situazioni ad alto tasso d'efficienza, tipo Milano (perdite inferiori al 10 per cento), dove l'acqua è peraltro saldissimamente in mano pubblica e nessuno si sogna, per adesso, di privatizzarla. Di quattrini per rattoppare e migliorare ce n'è un gran bisogno: che li caccino lo Stato o gli enti locali, finanziandosi con le tasse (come vorrebbero i referendari), o i privati per ottenere rendimenti futuri, a chi costruisce o posa condotte, acquedotti e depuratori, interessa relativamente. Si lamenta Alessandro Gariazzo, il cui gruppo lavora nell'acqua da un secolo ma da un po' ha dovuto diversificare per carenza d'affari: "Da dieci anni con l'acqua si combina poco, per noi ormai vale il 30 per cento del fatturato. Per fortuna ha piovuto molto, sennò saremmo stati spesso in emergenza. La realtà e tragica, specie se confrontata con quello che fanno in città come Chicago, dove ogni dieci anni il comune emette un bond per finanziare la sostituzione delle tubature. Un sogno, visto da qui".

(fonte: L'Espresso e Cometa)