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lunedì 14 febbraio 2011

La Lega (non) ce l'ha più duro


Alle sette di sera in punto l’aula della Camera vota per rispedire al mittente le carte della procura di Milano su Silvio Berlusconi. Il centrodestra recupera un voto e arriva a quota 315 che mancava dalla scorsa estate, dall’espulsione di Gianfranco Fini dal Pdl e dalla nascita di Futuro e libertà. Determinante, al solito, è la Lega di Umberto Bossi che questa sera assomiglia tanto a quei pifferi di montagna che partirono per suonare e finirono suonati.
Le intenzioni del Senatur a inizio giornata erano chiare: “O passa il federalismo o si va al voto”. E per capire gli umori leghisti bastava aprire questa mattina “La Padania”. Titolo: “La grande occasione”. Sommario: “Se deciderà di bocciare il cambiamento, chi rischia davvero la bocciatura è l’attuale classe politica. I padani sicuramente non capirebbero”. Sintassi da pratone di Pontida, ma messaggio esplicito. Ribadito dagli articoli di pagina 2: “Ci fosse un altro stop, la parola al popolo!”, con tanto di esclamativo.
Alle due del pomeriggio, però lo stop arriva davvero, con il pareggio nella Bicameralina che deve dare il via libera al federalismo municipale. E la Lega entra in sofferenza acuta. “Non so che faremo”, ammette il ministro Calderoli. “Non so se andremo a votare”, diventa improvvisamente più prudente di un monsignore di Curia il Bossi tonante. Nel Transatlantico, forse non avvisati dei tormenti del Capo, i peones leghisti si scatenano: “Basta con il Nano che ride, mettiamolo in una teca e ogni tanto portiamo i bambini a fargli visita!”, sbraita un lumbard. “Nelle nostre assemblee finora abbiamo arginato l’incazzatura dei nostri sulle cene di Arcore con la promessa del federalismo. Ma se ci presentiamo con il sacco vuoto ci inseguono”, con il classico forcone, ma troppi forconi ci vorrebbero, in effetti.
Vogliamo tornare a fare politica, reclamano i deputati del Carroccio, anime semplici. Vogliamo tornare a parlare con Fini e perfino con Di Pietro e non diciamo di Casini. E per qualche minuto appare evidente una verità indicibile: che Berlusconi è ormai diventato un tappo anche per la Lega. Che senza di lui tutto sarebbe più facile da ottenere, federalismo e rappresentanza del Nord. E che il muro di Arcore che tiene bloccata la politica e la società italiana vacilla anche dalle parti del Po.
Sì, ma chi la dice questa verità a Silvio? E soprattutto, chi la dice ad Umberto? Così, accanto a questa constatazione,quando l’aula di Montecitorio comincia a votare sul caso Ruby, si fa largo un’altra verità, ancora più amara, e non solo per la Lega. La politica, da sola, non ha in sè le risorse per chiedere a Berlusconi non certo la fuga alla Ben Alì, che non sarebbe degna di un paese democratico, ma neppure un semplice passo indietro in attesa di accertamento della giustizia, che invece sarebbe il costume tipico dei grandi paesi occidentali. Nessuno ha la forza di farlo: non l’opposizione, che questa sera fa il suo onesto lavoro ma che alla fine conta oltre una decina di assenze tra i suoi banchi, non il Pdl, di nuovo schierato in difesa del suo Leader unico, e neppure la Lega.
Nella Palude romana il voto va giù in un’atmosfera rarefatta. Mariarosaria Rossi, la deputata intercettata a discettare del bunga bunga con Emilio Fede, si presenta in veste monacale. Tremonti discute con i siciliani di Saverio Romano. Le ministre strette come scolarette. I deputati del Pd con il fiocco bianco alla giacca in solidarietà con le donne. Rocco Buttiglione che in aula, pensa te, fa l’intervento più sentito della giornata: “Machiavelli, che a differenza di me non era un bigotto, scrisse che il Principe non deve essere ma almeno apparire buono. La politica non coincide con la morale, ma non può neppure essere del tutto separata!”. E il deputato-avvocato del Pdl Maurizio Paniz, cantilena da salmodiante valligiano, fa sua la difesa di B. nella famosa notte in questura: “Egli ha telefonato, sì, è vero, ma nella convinzione, vera o sbagliata, che Kharima fosse parente di un capo di Stato. I rapporti internazionali passano anche da telefonate come queste” (il ridicolo, onorevole Paniz, passa anche da difese come queste). E nella Palude romana affonda anche la Lega. Alle due si becca la bocciatura del federalismo, alle sette è costretta ancora una volta a salvare Berlusconi dai giudici, alle otto porta a casa un decreto forse incostituzionale. Spuntate le minacce di elezioni, rotture, chiarimenti. Umberto e Silvio sono davvero una cosa sola. E sarà politicamente scorretto pensarlo: ma Bossi nella scala delle preoccupazioni del premier conta meno di Nicole Minetti, molto meno.
Si continuerà così, dunque. Alla giornata. Sperando che passi la nuttata.Perché nella Palude non si fa più un passo, né da una parte né dall’altra. Fini continua a presiedere la Camera come se nulla fosse. La Lega resta imbullonata al governo nonostante il pantano. E Berlusconi si barrica a palazzo Chigi come nel bunker di Berlino. Nella Palude c’è una classe dirigente nel suo complesso terrorizzata da ogni scossone e prigioniera delle ossessioni berlusconiane. E in assenza di un intervento della politica toccherà alla magistratura procedere, alla faccia degli allarmi sulle ingerenze delle toghe. “Ma le foto del Bunga Bunga ci sono”?, si informa un notabile del Pdl che ha appena finito di votare in difesa del premier. E’ il nuovo terrore di Arcore. Ed è l’attesa del prossimo terremoto annunciato, con i partiti e i leader piccoli e grandi a fare da spettatori, incapaci di agire. Ma la politica che poteva sciogliere qualche nodo prima del drammatico showdown finale non è capace di farlo. Ha ragione il quotidiano della Lega: i padani non capiscono, non possono capire. E neppure noi.

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