In un bar di Roma, una cronista del "Fatto" ascolta un colloquio riservato tra l'ex ministro e l'europarlamentare Udc Gargani. "Massimo Ciancimino ha detto la verità". Nelle parole del politico siciliano, la preoccupazione che emerga il ruolo della sinistra Dc e di Ciriaco De Mita nelle pressioni per ammorbidire il carcere duro per i boss di Cosa nostra nel 1992-1993
I fatti
Sono circa le 12,30 di mercoledì 21 dicembre quando arrivo alla pasticceria Giolitti in via degli Uffici del Vicario, a due passi da Piazza del Parlamento, dove ho appuntamento per ragioni di lavoro con l’onorevole Aldo Di Biagio di Fli. Entro, ma non lo vedo. La voglia di accendere una sigaretta supera anche il freddo pungente. Esco. Mi siedo a un tavolino e ordino un cappuccino. Sono sola.
Poco dopo vedo arrivare, a passo lento, l’onorevole Calogero Mannino in loden verde, in compagnia di un signore dai capelli bianchi, occhiali, cappotto scuro taglio impermeabile e in mano un libro e dei fogli. Non so chi sia. I due stanno parlando. E continuano a farlo fermandosi in piedi accanto al mio tavolo. Mannino, che mi dà le spalle, dice con tono preoccupato e guardandosi più volte intorno sospettoso: “Hai capito, questa volta ci fottono: dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Hai capito? Quello… il padre… di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”.
Il suo interlocutore annuisce con cenni del capo e ripete: “Certo, certo, stai tranquillo, non ti preoccupare, ci parlo io”. E Mannino ripete: “Fallo subito, è importante, mi raccomando”. Poi, avvicinandosi di più al signore coi capelli bianchi, gli sussurra all’orecchio parole che ovviamente mi sfuggono, ma che suscitano nell’interlocutore un’espressione di meraviglia. Subito dopo, i due si salutano, si abbracciano e si scambiano gli auguri di Natale. Mannino si dirige verso il Pantheon, mentre il signore occhialuto col cappotto scuro verso Piazza del Parlamento, dove poco dopo lo fotografo con il mio iPhone.
Subito dopo mi raggiunge l’onorevole Di Biagio. Il quale, vedendomi un po’ turbata, mi domanda cosa mi sia accaduto. Rispondo genericamente di aver ascoltato Mannino dire cose incredibili. Rientro in redazione nel primo pomeriggio e racconto per sommi capi quello che ho visto e sentito al direttore Antonio Padellaro e al vicedirettore Marco Travaglio. Quest’ultimo, quando gli mostro la foto scattata dal mio iPhone e gli chiedo se riconosca il signore occhialuto coi capelli bianchi, risponde sicuro : “Certo, è Giuseppe Gargani, ex democristiano, demitiano, poi berlusconiano”. Gargani è un ex Dc, ex Ppi, nominato commissario dell’Agcom dal governo dell’Ulivo, poi transitato in Forza Italia e di lì confluito nel Pdl, eletto europarlamentare, ultimamente fondatore di Europa Sud e da poco passato all’Udc di Casini. Alla luce di questa biografia, le parole che ho appena ascoltato diventano tante tessere che vanno a riempire una parte del mosaico.
Annoto quello strano episodio con le parole che ho ascoltato dalla viva voce di Mannino nel mio taccuino: un giorno questi appunti potrebbero tornare utili. Ci ripenso quando leggo che la Procura di Palermo, nel corso dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia, è salita a Roma il 12 gennaio per sentire come testimone Ciriaco De Mita. Già so infatti quel che ha dichiarato a suo tempo Massimo Ciancimino: la trattativa fra gli uomini del Ros e suo padre Vito godeva di coperture politiche anche tra le file della sinistra Dc (la corrente, appunto, di De Mita e Mannino).
Mi riservo di approfondire e contestualizzare meglio. Intanto passa qualche altro giorno ed ecco accendersi definitivamente la lampadina quando, il 23 febbraio, le agenzie e i siti battono la notizia che Calogero Mannino, già assolto in Cassazione dopo un lungo e tortuoso processo per concorso esterno in associazione mafiosa, è di nuovo indagato a Palermo. Questa volta per il suo presunto coinvolgimento nella trattativa Stato-mafia. Il reato contestato è quello previsto dall’articolo 338 del Codice penale, aggravato dall’articolo 7 (cioè dall’intenzione di favorire Cosa Nostra): per “violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario”. Lo stesso che vede già indagati il generale ex Ros Mario Mori, l’ex capitano Giuseppe De Donno, il senatore Marcello Dell’Utri, i boss Totò Riina e Bernardo Provenzano. Approfondisco le ultime mosse dei magistrati e apprendo che durante l’interrogatorio c’è stato un duro scontro tra il pm Antonio Ingroia e Ciriaco De Mita.
Ingroia definisce Mannino, nel periodo che era oggetto dell’interrogatorio, ministro degli Interventi straordinari del Mezzogiorno, De Mita puntualizza: “Ministro dell’Agricoltura”. Ma il pm insiste. “E come fa a permettersi di insistere?”, sbotta De Mita. Il pm replica: “Perché ricordo, ricordo diversamente”. “Giudice – ribatte De Mita – se lei ha la presunzione della verità delle sue opinioni, io temo per gli imputati!”. Ad avere ragione è Ingroia: Mannino fu ministro dell’Agricoltura nel 1982 e ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno dal 12 aprile ‘91 al 28 giugno ‘92. Ma alla fine De Mita aveva dovuto ammettere di avere torto: “È grave, è grave per me…”.
Quanto al ruolo di Mannino, le cronache riferiscono che l’autista di Francesco Di Maggio (il magistrato promosso vent’anni fa vicedirettore del Dap e poi scomparso) ha rivelato ai pm di aver appreso dallo stesso Di Maggio che proprio Mannino fece pressioni affinché non venisse rinnovato il 41-bis ad alcuni mafiosi detenuti. Ecco di che cosa parlava Mannino con Gargani quel mattino poco prima di Natale. Ecco perché appariva così terrorizzato da possibili “voci stonate” sulla trattativa e interessato alla compattezza e all’uniformità delle versioni da parte di tutti gli “amici” della vecchia Dc. Ed ecco, ben chiare di fronte a me, le ultime tessere mancanti del mosaico di quell’episodio che temevo fosse destinato a restare confinato in qualche riga di appunti sul mio block notes.
Ne parlo con qualche mia fonte di ambiente investigativo e ben presto la scena cui ho assistito davanti al bar Giolitti giunge a conoscenza dei magistrati di Palermo.
Vengo convocata dai pm Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Paolo Guido che indagano sulla “trattativa” per essere ascoltata come persona informata sui fatti, cioè come testimone nel fascicolo sulla trattativa. Ovviamente accetto di raccontare tutto ciò che ho visto e sentito quel mattino. Dopo verranno subito sentiti i due politici protagonisti del colloquio da me casualmente ascoltato: cioè Mannino e Gargani.
Alla fine, al momento di firmare il verbale, i magistrati mi ricordano che le deposizioni dei testimoni sono coperte dal segreto investigativo. Obietto che sono una giornalista, oltreché la depositaria della notizia. Dunque, ultimate tutte le verifiche per contestualizzare il colloquio Mannino-Gargani, racconterò tutto anche ai lettori. Cosa che ho appena fatto.