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venerdì 29 ottobre 2010

Politici bolliti, ecco gli alibi. Di Lia Celi

Di solito, quando vengono trombati, dicono di "scegliere la famiglia" o di voler "tornare all'insegnamento". Ma ecco che cosa succede davvero quando un parlamentare rischia di perdere la poltrona
(23 settembre 2010)
Un politico italiano di razza non si limita a dire bugie su ciò che farà se verrà eletto. Un politico italiano di razza le dice anche su ciò che farà se verrà trombato. Quindi, se vuoi dare la scalata al Palazzo, inventati subito una fanfaronata d'effetto per rendere più spettacolare una futura, eventuale caduta. Possibilmente, qualcosa di più originale dei soliti fioretti-da-fine-carriera cui ricorrono i big della politica. Eccone alcuni.

«SCELGO LA MIA FAMIGLIA»
Misteriosa formula in codice spesso usata per spiegare le proprie dimissioni, e che, a seconda dei traduttori, significa «mia moglie sta per essere messa agli arresti domiciliari per tentata concussione» (trad. Clemente Mastella), o «dopo che mi hanno beccato in un albergo a ore a pippare coca con due battone, il partito mi ha consigliato di non farmi vedere in giro per un po'» (trad. Cosimo Mele), o «credevo che fare il sindaco di Bologna fosse più divertente, preferisco una comoda poltrona al Parlamento Europeo» (trad. Sergio Cofferati). Attenzione: se davvero vuoi dichiarare che rinunci a un incarico politico per dedicarti di più a moglie e figli, le frasi in codice da usare sono «Innaffio la mia salamandra» o «Il pappagallo non vola». A meno che tu non sia un politico siciliano o calabrese, nel qual caso la scelta di stare con la famiglia acquista tutto un altro significato.

«ANDRO' IN AFRICA»
Prometterlo invano è una beffa crudele alle spalle di una terra povera, sfruttata, logorata dalle lotte tribali (ci riferiamo all'Italia, ovviamente). Il caso di scuola è quello di Walter Veltroni, che al termine del mandato come sindaco di Roma pareva sul punto partire per Nairobi per fondare un ordine missionario rivale dei Comboniani, i padri Veltroniani. Gli africani se ne sono fatti una ragione: se Veltroni avesse provato a risolvere i conflitti etnici con lo stile che usa oggi per intervenire nel Pd, ci sarebbero stati nuovi bagni di sangue. Delusi solo i cannibali: non avrebbero nemmeno dovuto fare la fatica di cuocerlo, visto che Veltroni era bollito già nel 2008. Sportivamente, i militanti del Pd non gli rinfacciano più quell'ingloriosa retromarcia, e si limitano a salutare ogni sua apparizione pubblica con cori come «Ramaya, uh uh uh Ramaya» o «Il tucùl è quella cosa / dove Walter si riposa». Morale: se l'orizzonte dei tuoi ideali politici è il continente nero, vacci senza farti pubblicità, evitando con cura fotografi e giornalisti, come Giovanna Melandri quando passa il Capodanno nella villa di Briatore in Kenya.

«VOGLIO FARE IL NONNO»
Exit strategy tipica degli attempati premier italiani (nel resto del mondo i premier sono ancora abbastanza giovani da mettere incinta la first lady), quando butta male. I loro nipotini l'hanno capito dalla culla: «Tra poco arriva il nonno», «Un'altra crisi di governo, ma'?». Comunque dura poco: il tempo di farsi qualche fotografia stile Kim il Sung con uno o due pupi sulle ginocchia (vanno bene anche quelli del custode, tanto poi «Chi» sgrana i volti), e il nonno-sprint torna a raccontare favole a un pubblico più infantile, i suoi elettori. «Farò il nonno» è una bufala trasversale: l'ha usata di recente Berlusconi per togliersi degli anni (avrebbe già l'età per fare il bisnonno), ma se n'è servito tranquillamente anche Prodi nel 2008. E appena due mesi dopo aver dichiarato di volersi occupare a tempo pieno dei nipotini, il Professore si è trasferito a Shanghai. Incoerenza? Al contrario: pare che lo sterminato clan Prodi intenda delocalizzare proprio in Cina alcune linee di produzione di nipotini, i cui costi a Bologna sono diventati insostenibili.

«TORNO A INSEGNARE»
Fra tutti i propositi espressi da politici trombati questo è sicuramente il più sconsiderato. Lontani da tempo dal mondo dell'insegnamento, gli incauti hanno dimenticato che anche la scuola, come la politica, è «sangue e merda», solo che a scuola i cerotti e la carta igienica devi portarteli da casa tu perché il Ministero non dà più un centesimo. Piero Marrazzo, in cerca di povertà e umiliazione dopo lo scandalo trans, intendeva farsi assumere in una scuola primaria a Torbellamonaca, ma i suoi cari l'hanno convinto a ripiegare sul più comodo cenobio di Montecassino, anche perché ormai un monastero è l'unico posto dove l'ex governatore del Lazio può prendere dei voti. Diverso il discorso per i professori universitari, come Domenico Siniscalco, sfortunato ex ministro dell'Economia per Berlusconi, il cui reinserimento nell'ateneo di Torino si è rivelato più difficile del previsto: abituato ad essere regolarmente sfottuto e mobbizzato dai colleghi di governo, invece di tenere le sue lezioni Siniscalco si nascondeva sotto i banchi e ringhiava agli studenti. Meno traumatico il ritorno di Mariotto Segni all'Università di Sassari: sia come professore di Diritto privato che come leader referendario, non gli dà più retta nessuno.

(fonte: L'Espresso)

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